Del giorno in cui uscì Disintegration dei Cure

i Cure sono la mia band preferita, da sempre,
anzi no.

Lo sono diventati in una sera dell’inverno del 1985, in montagna, con la pioggia che batteva sui finestrini di una Golf scassona e noi che fumavamo senza alcun limite, infreddoliti e con la netta sensazione non già di essere a Serrada di Folgaria, ma di trovarci davvero in Inghilterra, in una zona post industriale che avevamo visto nel retro della copertina di qualche LP dei Depeche mode.

Mauro disse, come mille altre volte: senti questa 😄
E così l’arpeggio introduttivo di in your house, mi catapultò nel mondo dei Cure
per sempre.
Non avevo mai sentito nulla di simile. Grazia e forza, un sound scarnissimo caratterizzato da una bianca, silenziosa violenza.
Acquistai tutto l’acquistabile dei Cure, cercando in ogni dove un negozietto di dischi dove trovare rarità e b-sides, bootleg e demotape della band di Roberto Smitti, Simone Galuppi & Co.

Dentro di me avevo catalogato tutti i lavori dei Cure mettendoli in una mia classifica personale, ed ogni album, ogni canzone aveva un posto preciso, un ruolo nella mia vita, ed era utile per capirla, interpretarla, viverla.
Ero solito, per esempio dividere gli album per strumento: la chitarra è lo strumento che caratterizza 17 seconds, il basso è la spina dorsale di Faith, e la batteria è totalmente Pornography

Ma anche per mood, più romantico, più decadente, più stupidotto… Imparai i testi e le parti strumentali di OGNI canzone del repertorio dei Cure. Senza dubbio imparai a suonare la chitarra grazie ai Cure.

Cominciai a sentirmi parte di una setta di eletti, ed irridevo i miei amici “normali” che mi insultavano per i miei ascolti, per usare un eufemismo, alternativi… Loro non potevano capire, e questo mi faceva sentire, non so spiegare il perché, benissimo.

Certo KissmeKissmeKissme fu un album bello ma troppo pop per i miei gusti del tempo, e quindi mi ero oramai fatto l’idea che i nostri avessero toccato l’acme con The Head on the Door, e che fossero oramai in fase calante.

Ma quando nel maggio del 1989 uscì Disintegration fu chiaro che mi ero sbagliato.
Di grosso.

Comprai due vinili e mi precipitai al campo di baseball, da Fabio. Bastò mostrargli la copertina dal reticolato che cinge il campo di gioco per fargli smettere l’allenamento.

“Una questione urgente” disse all’allenatore, il quale, ingenuo, chiese: “Figa?”
e Fabio, per non deluderlo: “esattamente”
Ci scapicollammo a casa sua, più precisamente sullo stereo di sua sorella, nostro tempio sonico di quel periodo.
Aprire un vinile è un’esperienza magica; il cellophane, la copertina, la busta interna e le fotografie giganti…le risate e gli sguardi, eravamo nervosi ed impazienti…

Tagliammo corto e decidemmo di appoggiare il vinile sul piatto subito dopo avere letto l’indicazione di copertina che recitava

This music has been mixed to be played loud, so turn it up

Gioia pura
Religione vera

altrochè figa

Silenzio

Il pick up si posa sul vinile
%$&”!^
Campanellini
Tastiere a bassa intensità
Campanellini

E poi?
E poi arriva Il suono dell’immenso, un gigante buono che dura più o meno un minuto e mezzo…

Roberto Smitti ci circonda con una sequenza di note di chitarra che sono il SUO suono, una sequenza semplice e meravigliosa, per poi abbracciarci da dietro con un testo invernale cantato sofficesoffice..

Il disco è così un capolavoro che non riusciamo nemmeno a capire quanto lo sia sulle prime battute…
Rimaniamo fermi e non proferiamo parola per una mezzora/ 35 minuti.
Solo un rumore di mani che si asciugano gli occhi durante quel monumento allo spleen che è the same deep water as you

Sulle note finali di untitled ci abbracciamo felici e un po’ sconvolti…
Anche la voce di Robert è diversa.
É come se anche lui fosse trasfigurato dopo la maratona emozionale cui ci ha sottoposto.

Non ricordo come tornammo nel mondo reale, non ricordo null’altro di quel periodo confuso e meraviglioso.

Ma conservo gelosamente la mia copia di Disintegration per ascoltare di tanto in tanto la bianca e silenziosa violenza di quell’epoca che ancora
(e sempre), mi suona dentro.